Un avaro incontra il mare, il profondo mare che tutto inghiotte, e perde se stesso.
I miei sassi
Sono andato sulla spiaggia lì dove la sabbia era fredda. Coperto da una tavola bianca che si
fingeva cielo, pensavo al numero delle mie perdite, stringendo dei sassi nelle mani. Ad ogni
addizione di mancanza, serravo forte i pugni, ma, senza nemmeno accorgermene, e senza
alcuna spiegazione evidente, quelli mi scivolavano via dalle mani. Correvano sui granelli,
trascinati da onde voraci, sparivano in un fondale oscuro in un modo che non mi sono mai
riuscito a spiegare.
Era di novembre, e il mare a novembre è un vetro scuro che, quando il vento si nasconde,
emette dei singhiozzi silenziosi. Quel mare, tanto bello e tanto amaro, mi privava dei miei
sassi. Ero arrivato anche a gettarli in aria, a lanciarli via. Mosso da non saprei nemmeno dire
quale forza, disegnavo coi sassi una curva nell’aria. E quelli cadevano, tracciando anelli
concentrici su una superficie densa di blu, sporcavano la monotonia di un mare muto.
Ad ogni mio sasso lanciato, contavo le mie perdite, gettavo brandelli di ricordi in tuffi vani,
sentendomi mutilato. Mi mancano. Mi mancano molto i pezzi di me davanti a un mare
d’abbondanza, un mare ladro dei miei stessi sassi.
E mi chiedevo, con l’iride che stringeva a sé le lacrime, se davvero ci fosse al mondo un
mare capace di contenere ogni mio sassolino perso, un mare tesoro di ciò che nella vita è
sempre stato mio ed è sempre stato nascosto, un mare di onde, scrigno dei ricordi perduti
che cominciano a urlare ogni volta che provo a trattenerli. Ricordi pieni di una vita passata a
preservarmi, a diventare una teca di sentimenti inespressi, imbottigliati e infine chiusi.
Sentimenti raggruppati, autoalimentati e infine autoannullati.
Mentre di fronte a me c’è un mare che si finge pacato mentre conta le mie perdite che
continuo a conservare. Fremo dal desiderio di recuperare ogni sasso, di recuperare ogni mio
sasso da quel mare amaro, amaro e avaro, che li sta tenendo per sé, per me, per entrambi,
specchiati.
E così raccolgo dalla sabbia grappoli di conchiglie rotte, conchiglie taglienti che mi graffiano
le dita. E col sangue mi nascondo il viso, perché non ricordo più l’ultima volta in cui nello
specchio di questo mare io ci ho visto la pace. Col sangue tingo le mie lacrime, mentre piano
mi spoglio nel mare di novembre, lavandomi del mio stesso rosso, stringendo le mie stesse
ferite, appannando la mia stessa vista quando apro gli occhi sul panorama appannato che
mi accoglie sott’acqua. Devo recuperare tutti i miei sassi, ma la scena è troppo opaca per
trovarne anche solo uno, e d’un tratto mi sento come un ramo autunnale, a spremere ogni
goccia di linfa vitale per trattenere qualche foglia, geloso del vento che la vuole portare via.
Non trovo più i miei sassi, le foglie che ho gettato di slancio in un mare che respira un’aria
pungente. E più mi abbraccia, più punge. Punge come punge il rendermi conto, uscendo
dall’acqua, che quei sassi nel mare sono in realtà finiti dentro di me. In quella parte di cuore
a cui non so arrivare. Così nascosti da non vederli nemmeno più, né è possibile sentirli,
conoscerli, donarli, mostrarli. Sono in quella parte di me nascosta agli occhi del mondo, alla
tavola bianca sulla mia testa che si finge cielo, nascosta agli occhi del mare, ai miei stessi
occhi. E sapere questo è ciò che punge di più, ciò che punge forte come il singhiozzo del
mare, che piange in silenzio, per non farsi ascoltare.
–
Composizione di Ludovica Ingangi