Cibo per i vermi: il ciclo della gola

Qual è la differenza tra "sfamarsi", "nutrirsi" e "mangiare"? E allora "divorare"? Il cibo è oggetto o persona?

Io sono ciò che mangio.
Io mangio ciò che sono.

“Non potremmo noi seguire con l’immaginazione le tracce della nobile polvere d’Alessandro Magno fino a ritrovarla nel tappo di una botte? […] Alessandro è morto; Alessandro fu seppellito; Alessandro è ridotto in polvere; la polvere è terra e con la terra si fa l’argilla.” scrive Shakespeare

    Noi ci nutriamo dei pesci che hanno inghiottito i vermi che hanno mangiato le ossa e la carne di nostra madre, di nostra nonna, di nostro fratello.
La si potrebbe vedere anche in maniera meno macabra, parlando di “grande ciclo della vita”, connessione di tutti gli esseri o altre immagini stucchevoli, ma crediamo che sia meglio fare presente la dimensione propriamente materica dell’alimentazione: il cibo è la riprova quotidiana, tre volte al giorno in porzioni da 80-100g, che la vita è riciclo, è permanente scambio di sostanze tra esseri organici.

    Assassiniamo un porro o una carota per fare il soffritto del nostro risotto, ma saremo a nostra volta nutrimento per funghi, insetti e scolopendre, non appena tireremo le cuoia. Anzi, già ora molti organismi si pappano i frammenti microscopici di pelle morta e di capelli che perdiamo in giro tutto il tempo, batteri approfittano delle sostanze nutritive che ingeriamo stando acquattati nel nostro intestino e parassiti d’ogni genere tentano di cibarsi di noi.
E forse ci conviene accettarlo. Sarebbe incredibilmente inquietante se le pietanze in tavola iniziassero a ribellarsi alla nostra forchetta, ai denti, alla lingua. Se una bistecca tremasse dalla paura, se un muffin potesse gridare…c’è una dimensione d’orrore necrofilo nascosta sotto il concetto di “cucina”. Questo orrore, quando sentito e temuto, può condurre al rifiuto del cibo, all’odio o la fobia per l’ingerimento, la paura di mangiare cadaveri. D’altro canto, quando questa necrofilia latente viene invece abbracciata ed esaltata – forse proprio per esorcizzarla? – si arriva all’estremo opposto: una bulimia nevrotica e compulsiva, il godimento sadico e inammissibile per l’uccisione di carne che prima era viva, l’obesità tracotante dell’insaziabile.

    Tutti e due sono peccati di gola. Tutti e due sono perversioni del rapporto col cibo, con la materia e, quindi, col corpo. Come ristabilire un sano equilibrio, né morboso né alienante? Con la cura.
Riconoscersi materia organica e viva che abbisogna per nutrirsi di materia organica e morta, sapendo che anche pochi giorni di astinenza ci provocherebbero la morte certa – ossia il diventare prematuramente cibo a nostra volta – e che già dopo poche ore ci brontolerebbe la pancia, riconoscersi anelli di una catena che non comincia né finisce in noi stessi, allargare dunque lo sguardo alla maglia di rapporti che ci rende indispensabili gli altri e l’ambiente, istintivamente ci induce un sentimento di sintonia e accudimento per quel che mangiamo. Può tradursi in nuove scelte sulla qualità degli alimenti che acquistiamo, su come li consumiamo, con quanta attenzione li gustiamo (anziché trangugiarli!), ma sicuramente una coscienza attiva della nostra partecipazione al grande sistema digerente del pianeta desterà in noi una cautela e un rispetto che prima non avevamo.

    D’altro canto si sa: la tavola è il luogo della condivisione. Meglio: della dipendenza. Se ci scopriamo dipendenti, diventiamo grati. E la gratitudine si esprime con lo zelo e l’empatia: senza i camionisti che trasportano le merci, senza i magazzinieri che le scaricano, senza i commessi e le commesse dei supermercati, senza gli inservienti, senza gli operai e le operaie che producono borse di tela e sacchetti di plastica, senza le industrie dei frigoriferi, nulla arriverebbe sulla nostra tavola. La tavola è dipendenza e correlazione. Noi non siamo né artefici né meri destinatari del complesso economico-industriale umano o, men che meno, del grande metabolismo della biosfera: siamo anelli di congiunzione, anelli fra i tanti, tutti egualmente indispensabili, tutti fruitori del meccanismo di cui fanno parte.

    Il cibo e la vita sono costante interscambio, interdipendenza. Dunque prendersi cura dell’ambiente, naturale e sociale, cui apparteniamo comporta prendersi cura di sé, e prendersi cura di sé significa avere un occhio di riguardo per il mondo. Siamo inestricabili, siamo mondo.

    Il vizio della gola è la negazione del mondo: tolta la rete delle relazioni, rimane solo il nostro rapporto privato e dittatoriale con la materia inerte che possiamo ingurgitare – o che possiamo disconoscere! Sia rendersi alieno il cibo, sia volerlo possedere senza ammettere di esserne sempre in parte posseduti: entrare in un’ingannevole visione di soggetto=attività e oggetto=passività, oggettificare se stessi come enti autonomi e arbitrari e i beni di consumo come cosa morta e vuota è ciò che ci induce in tentazione.

    In effetti, la dinamica del denaro e dell’acquisto favorisce questo abbaglio: avendo sborsato dei soldi, ci permettiamo di credere di aver già saldato il debito con la morte, di essere ormai legittimi proprietari e despoti delle carcasse che sgarbatamente accumuliamo nel piatto, mescoliamo e tagliamo a pezzi. Ma la morte non sa cosa farsene delle nostre valute: verrà sempre a reclamare di noi, della nostra carne, della nostra vita.

    Ci serve però ampliare ancora un poco l’argomento, e lo faremo grazie alle parole di Giorgio Gaber:

“L’obeso s’è creato quel suo corpo così pieno per sfuggire dal terrore di non essere nessuno. […] L’obeso mangia idee, mangia opinioni, computer, cellulari, dibattiti e canzoni; mangia il sogno dell’Europa, le riforme, i parlamenti, film d’azione, libri d’arte, mangia soldi e sentimenti e s’ingravida guardando e mangiando gli orrori del mondo.”

    Un altro lato della gola è il senso di sazietà, o meglio, la dialettica pieno/vuoto: se l’avaro, che abbiamo già analizzato in passato, tiene chiuso in se stesso le proprio ricchezze, anche vedendole marcire, pur di non correre il rischio di perderle, il goloso (un po’ come il lussurioso) è avido e ingordo, vuole di più, vuole sentirsi colmato. Certe scuole psicanalitiche arrivano perfino a dire che l’eccesso di nutrimento, la bulimia e la fame compulsiva, non sono altro che istinti suicidari mascherati dal piacere, dal capriccio della golosità. Vorremmo essere pieni fino a scoppiare, fino a morire.
Ma anche se non fosse così, resta parimenti il tema del riempimento: si può avere l’acquolina in bocca per delle braciole che sfrigolano sulla piastra esattamente come si può essere affamati di nuove esperienze, affamati di sesso, perennemente insoddisfatti e alla ricerca dell’esperienza più…, del sesso più…, consumatori nel senso di omicidi, di annientatori.

    Qua ci servono Hegel ed Epicuro: innanzitutto l’antico filosofo greco, che distingueva tra un piacere dinamico (virtualmente sempre aumentabile, il godimento intenso e orgasmatico della ricchezza, del cibo, del sesso, della fama etc…) e uno catastematico (ossia la moderata ma stabile contentezza di chi ha quanto gli basta, ha raggiunto il suo obiettivo e lo mantiene nel tempo, senza volere un ette di più), e poi il tedesco che ha consacrato lo Spirito come l’essenza e la struttura del mondo.
Hegel, infatti, ci parla di come ogni autocoscienza, ossia pensiero che sa di pensare, sia votata al consumo: portare cose dentro di sé, strappare oggetti al dominio del mondo, e renderli suoi. L’unica cosa che le si può opporre è un’altra autocoscienza, perché come la prima vuole consumare – e non essere consumata!

    Dunque è questo l’antidoto: ingaggiare col cibo una “lotta” che significa riconoscerlo come Altro, non come cosa inerte e mia. Se il cibo non è un bene garantito a mia disposizione secondo il capriccio, allora è una soggettività, un agente autonomo tanto quanto me – e come negare che le vacche e le piante di grano, prima della fine che abbiamo loro imposto, lo fossero? A volte lo mangerò, a volte ne sarò mangiato, perché io sono ciò che mangio, ma mangio ciò che sono.

    Solo così potremo raggiungere il piacere catastematico spiegato da Epicuro, la costante soddisfazione di conoscere ed esaudire i propri bisogni, né più né meno, senza intossicarci di reel, di nuove conoscenze viste come oggetti passivi di consumo, di vestiti che non ci servono e via discorrendo. Solo allora il nostro vuoto interiore non ci darà solitudine e sofferenza, bensì respiro e pausa, ampiezza, e non sentiremo l’esigenza di colmarlo ossessivamente. Solo allora la gola cesserà di essere un vizio e diventerà un organo, membro collegiale del tutto biologico.

Articolo a cura di Alessandro Scali

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