La voracità del goloso nasce da un senso di vuoto, dalla paura della scarsità.
Mia figlia sete
C’era una sete nel prato
che non era figlia della terra
ma mia, di un singolo fiore,
dopo una lunga
estate di siccità.
La pioggia lontana era
una promessa parlante di vita,
mentre stringevo il mignolo al cielo
confidando in una rifiorita.
E io ero giovane ancora:
un germoglio solitario
che nella terra diramava
labirinti di radici intricate,
radici perse
nel silenzioso buio dei formicai.
I pensieri nel futuro
attendevano giorni sazi,
ma nella linfa c’era già paura
di perdere la lotta
contro il mio sogno d’abbondanza.
Attorno a me fiori tra loro accompagnati –
più boccioli nati dal parto d’uno stesso stelo -,
mentre io
nell’ampiezza del mio vuoto
non trovavo più uno spazio.
E passò il tempo
e la promessa del cielo si mantenne
nell’arrivo freddo di cariche nuvole
donatrici di cristalli di pioggia,
in una terra vivace
impregnata di fango.
Così nei giorni di festa
dell’acqua che danza
sulla strada spianata
tra terra e cielo
mi ritrovai solo
a nutrire il mio stelo
fino a piegarlo
nel bere vita e vita ancora.
Mi avvolgeva
la segretezza del chiedere
e non saper trattenere.
In una nausea del mio fiore stanco
ritrovai le radici inzuppate:
labirinti fradici
del loro stesso pianto.
E così la delicatezza delle gocce
si trasformò
in veleno delle lacrime d’un cielo
da cui raccolgo
tutto ciò che dà
con le mie foglie bucate,
così piene d’acqua
che neppure trattengono.
Quando nel frattempo
sotto di me formiche
accumulano piano
un buio di quiete
capace di luce.
–
Composizione di Ludovica Ingangi