La stanchezza disperante e angosciosa di chi non trova motivo per alzarsi dal letto, per uscire alla vita, per darsi da fare: oggi esploriamo l'accidia come malattia filosofica ed esistenziale, al di là delle comuni idee sulla pigrizia.
L’istinto di morte, voler essere nulla: l’accidia
Basta immaginarsi un’automobile. Con le ruote sgonfie. La batteria scarica. Bisogna spingerla. Pesa circa una tonnellata e mezza e noi abbiamo a disposizione soltanto le nostre braccia e le nostre gambe. Un’impresa a dir poco ardua, se non disperata. Eppure, chiunque abbia mai dovuto fare una fatica del genere lo sa: la spinta iniziale è micidiale, necessita di una forza tremenda, ma una volta che la si smuove di qualche centimetro diventa più facile e si fa di tutto per non farla fermare. Sappiamo, intuitivamente, che se si arrestasse del tutto torneremmo punto e a capo, sarebbe più faticoso farla ripartire di nuovo che non continuare a spingerla mentre si muove.
E non è un inganno psicologico, è una legge della fisica! Per la precisione, la prima legge della dinamica di Newton! Si chiama inerzia e spiega come, quando un corpo si muove a una certa velocità (anche a velocità zero), se nulla interviene a modificarne la traiettoria, esso rimarrà “volentieri” nel suo stato attuale: quando ormai viaggiamo, è più faticoso frenare che proseguire (nel senso che richiede uno sforzo, l’intervento di una forza!).
Allo stesso modo, quando si ferma, un corpo “preferisce” rimanere fermo. Serve un intervento esterno per sollecitarlo. Ecco, teniamo questa metafora, ma allontaniamoci da Newton…balziamo a Pirandello:
“[…] ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi…anzi…per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla. E questo è da dimostrare bene, sa?, con prove ed esempi continui, a noi stessi, implacabilmente. Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita […]”
In questo pezzo straordinario di malinconia, l’autore fa oscillare un malato terminale tra una terribile tensione verso la morte e un aitante amore per la vita: si aggrappa disperatamente ad ogni cosa, ai dettagli, persino alle sciagure, per salvare nella memoria il sapore di ciò che sta per perdere. Eppure anche il suicidio è sempre alle porte, lo minaccia più volte nel monologo. Il dilemma è lo stesso, straziante, di Amleto: essere o non essere?
Raggiunto un sufficiente grado di disperazione…ma fermi, ci tocca definire questa parola! Torniamo alla sua origine, per non cadere nel tranello dell’uso comune: dis-spero, sono privo di speranza, di fiducia nell’avvenire e nel prossimo, ho terminato i motivi per cui correre rischi, ho smesso di credere nell’esistenza della felicità. Ecco, la disperazione. Una figura annientata, depressiva, spenta, macabra, che nulla ha a che vedere con chi strilla strappandosi i capelli, con chi urla fino a spezzarsi la voce. Quello, forse, è successo prima, nel momento in cui si è visto evaporare l’ultimo brandello di speranza/fede/vivacità (ossia attaccamento alla vita). Forse questa figura è il disperante, ma a noi oggi interessa il disperato.
Ecco, dicevamo, raggiunto un sufficiente livello di disperazione, la vita risulta atrocemente simile alla morte, anzi, forse peggiore. Al punto che viene la tentazione di perderla…ed è questo stadio estremo che noi chiamiamo accidia. Non è la comune pigrizia, nel senso di volersi risparmiare le fatiche, e men che meno è il riposo, o l’ozio, inteso come cura del proprio benessere psichico e corporeo. L’accidia è esattamente il contrario: è mancanza di cura.
Se il riposo scelto e goduto è sacrosanto, addirittura virtuoso, l’accidia è quell’inoperosità sofferta eppure non sfuggita: quel momento in cui si sa che si potrebbe, dovrebbe e persino vorrebbe (ma la volontà è proprio l’elemento che scricchiola) fare qualcosa, agire, andare, crescere, creare, imparare, esplorare, osare…ma non lo si fa. E ci si biasima per questo. L’accidia è la stasi depressiva dell’impaurito, di chi evita le sfide per paura di fallire – e questo la avvicina all’avarizia, già trattata in un precedente articolo! –, ma anche di chi non trova più un senso nelle sfide stesse!
Diverso è credere che 1) ci sia un desiderabile traguardo al di là della propria portata, sognato ma ritenuto irraggiungibile, oppure 2) credere che il gioco non valga la candela, ossia che il bene da conquistare sia minore dei dolori e delle difficoltà da attraversare per ottenerlo, oppure ancora, nel caso più grave, 3) che non ci sia proprio niente là fuori che merita di essere desiderato.
Forse solo quest’ultimo passaggio, la disillusione finale, può essere chiamato accidia in senso forte, ma i due che lo precorrono già si instradano lungo questo nefasto sentiero.
Tutti conosciamo quel sentimento di sconforto e demoralizzazione che ci impedisce di alzarci dal letto – e che dà sensazioni ben diverse dal riposo pieno e libero del giorno di festa, di gustosa pausa prima di ripartire (“il settimo giorno si riposò”…) –, che ci fa continuare un lavoro o uno studio che odiamo perché cambiare sarebbe troppo faticoso, quel tormentoso senso di vuoto che ci rattrappisce e ci spegne.
Serve reinterpretare il vuoto: se l’avaro custodisce gelosamente il proprio potenziale, i propri beni, per paura di rimanere senza, se lussuriosi e golosi fagocitano esperienze, corpi, cibo, piacere “per sfuggire dal terrore di non essere nessuno” (Giorgio Gaber), ecco, chi pecca d’accidia sprofonda in quel vuoto, lasciandosene cullare come se fosse comodo sparire.
“E il naufragar m’è dolce in questo mare.” (Giacomo Leopardi)
Per lui o per lei il vuoto non è uno spazio libero, un margine di creatività e libertà a sua entusiasmante disposizione, bensì una massa nera e dilagante che invade la vita e la ricopre di sé, rendendo tutto uniforme e incolore, tutto piatto, come se una cosa valesse l’altra. Si perde il gusto della differenza, della novità, e si preferisce sempre lo stato attuale a quello sconosciuto, perché il futuro potrebbe essere peggiore del presente.
Gli accidiosi e le accidiose di tutto il mondo sono morti che camminano (“vita morente” e “morte vivente”, diceva Sant’Agostino parlando di sé da giovane, prima di trovare la fede), sono i sempre annoiati, perché ciò che fanno e vedono sembra avere sempre lo stesso sapore del già visto, del già sentito, e mancando di questo gusto per il nuovo cessano di credere di poter essere loro i primi a portare qualcosa di nuovo nella vita e nella realtà. “Tanto non ci posso fare niente”, dicono, “il mondo va così”, “ormai è tardi…”, ecco le loro litanie!
Serve un atto dirompente per evadere da questa gabbia, quello che Nietzsche definiva “dire sì alla vita”, spezzare la catena angosciante dell’eterno ritorno dell’identico – sempre la noia, il necessario, il determinato – per farsi bambini, capaci di giocare, ossia di risignificare la vita, di inventare scenari e sensi a piacimento. “Facciamo che io sono…e che questo tubo è…” potrebbe essere l’inizio di un nuovo inno, l’inno della vita, della creazione, del godimento.
Serve emanciparsi dalle ipoteche del passato (credere che le cose possano sempre e solo andare come sono sempre andate) e dalle ansie del futuro (credere che le cose possano solo andare peggio di come sono finora andate), per riguadagnare il presente come regalo, come luogo principe dell’azione e, quindi, del cambiamento. E, fatto questo primo, vertiginoso passo (un salto della fede, per tanti versi), scoprire che la stessa inerzia che prima manteneva immobile ciò che stava fermo, ora invece mantiene in moto ciò che ha cominciato a muoversi!
Ma il primo passo resta un’utopia per il depresso e per l’ansioso, per le accidiose e gli accidiosi più irrecuperabili. Se ciò che manca loro è proprio l’intraprendenza, la motivazione per fare, per rischiare, come si può pretendere che azzardino una tale rivoluzione?
Ebbene, qua ci viene in soccorso, ancora una volta, Freud – personaggio da intendersi come filosofo dell’anima, come maestro della saggezza pratica e teoreta della felicità, non come psicologo nel senso attuale della parola. Egli riconobbe che al fondo di ognuno di noi confliggono due istinti, uno dei quali è la pulsione di morte: voler tornare indietro da adulto a bambino, da bambino a feto, da feto a cellula, da cellula a materia inerte e inorganica, morta. Perché essa è l’unica che non ha turbamenti, che non conosce dolore o delusione.
E secondo Freud uno dei sintomi dell’istinto di morte è proprio la coazione a ripetere: intestardirsi volontariamente in abitudini meccaniche, in ripetizioni che ci facciano essere sempre meno persone e più oggetti, cose sterili, a maggior ragione se sono abitudini che ci danneggiano. Sempre, con l’accidia quotidiana, stiamo cercando di annullarci, di renderci cosa inerte, inattiva, lapidaria come solo i morti sanno essere.
Eppure c’è, dall’altra parte, l’istinto opposto, il principio di piacere, la pulsione di vita! Non sparisce mai del tutto, non può essere soppressa, così come non può esserlo la sua antagonista mortifera. La prova? Anche quando si rimane fermi e arresi, una vocina nella nostra testa ci condanna per questa stasi, ci dice che stiamo sbagliando. Non è il moralismo che parla, né l’etica della produttività, è la vita! E la vita si alimenta col godimento. Ecco cosa può accendere la miccia, innescare il cambiamento che poi andrà ad autoalimentarsi nel circolo virtuoso della felicità: il piacere! Un piacere autentico, non quello rancido e ingannevole della lussuria e della gola – che infatti abbiamo già analizzato e tentato di sconfiggere.
L’accidia, ma anche la depressione, sono condizioni “autistiche”, ossia interamente proiettate su se stesse, ritorte, avvolte, egoriferite: deprimersi significa sprofondare in se stessi, cacciarsi fuori dalla vita, imprigionarsi nei rimpianti, nei lambiccamenti, nelle amarezze di se stessi, fare del mondo l’oscuro parco giochi della propria tetra fantasia. L’individuo è la trappola dell’accidioso, il carcere più nero in cui marcire: dobbiamo essere dividui, come diceva Durkheim, o ancora meglio condividui, creature in rapporto col mondo, che esistono solamente nella relazione con lo spazio, con l’aria, con la terra, col prossimo. Questo è un terreno che non ci potrà mai sfuggire di sotto i piedi, è un supporto che non ci potrà mai tradire, perché il mondo c’è, esiste con forza ed insistenza, se non siamo noi a fare un tentativo tossico e titanico di rinnegarlo.
Ecco il vero piacere: essere-con-l’Altro, essere-nel-mondo, per citare la fenomenologia e l’antropologia più recenti! Né spadroneggiarvi e volerli possedere – gola, lussuria, superbia, invidia… – né ritirarsene e fuggirli con mesta disperazione – avarizia e accidia. Ecco la scintilla, la spinta che avvierà il motore: il piacere di essere-con, abbandonando per un attimo la cella putrida della nostra solitudine.
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Articolo a cura di Alessandro Scali