La superbia dei menefreghisti

Il peccato dei peccati, la colpa originale, l'allontanamento dal Padre celeste o dalla Madre Terra - anzi, non solo l'allontanamento, ma la violenta rivolta contro padri, madri e dèi. Per poi rimanere soli.

 

Ci è stato detto che l’uomo è superbo.

Ci è stato insegnato l’errore di Icaro, che ha voluto volare troppo in alto, vicino al sole, stella di luce e conoscenza. Ci è stata insegnata la tracotanza di Ulisse, che ha voluto navigare oltre le colonne d’Ercole. Ci è stata rimproverata l’arroganza di Frankenstein, che volle addirittura, con la sua scienza esatta, sfidare la morte.

Ci è stato narrato per millenni che l’uomo ha una colpa originaria, un peccato intrinseco con cui nasce e di cui non riesce mai a lavarsi del tutto – tant’è che, anche battezzato, se avrà figli lo trasmetterà loro –, e quel peccato originale è la superbia: Lucifero che si ribella al Padre buono Dio, Adamo ed Eva che mangiano del frutto proibito, gli androgini che tentano di dare la scalata all’Olimpo, Tantalo che ruba il nettare degli dèi, Prometeo che inganna Zeus e poi sottrae il sacro fuoco della techne per donarlo ai suoi pupilli, gli uomini, e potremmo andare avanti a oltranza…non c’è nulla da fare: la cultura occidentale si basa su questo mito fondatore.

Ci riporta la storia che il genere umano ha più e più volte invaso interi continenti, sottomesso, schiavizzato se non sterminato interi popoli – a partire dalla grande guerra preistorica fra Homo Sapiens e Homo di Neanderthal, seicentomila anni fa –, massacrato bambini, comminato la pena di morte milioni di volte, torturato, depredato, stuprato, sempre e ovunque si muovesse.

Ci fanno ancora discutere ferocissimamente le conquiste tecniche degli ultimi decenni: in tanti e tante si chiedono se sia giusto, e quando, usare tutto il potere che abbiamo conquistato, il sapere che abbiamo strumentalizzato.
Sappiamo intervenire con precisione spaventosa sul codice stesso della vita, sul DNA, modificando uomini e piante, si presume, a fin di bene – aumentare la resistenza ai parassiti delle nostre coltivazioni non sembra poi male, così come risolvere alla radice allergie, malattie neurodegenerative o addirittura tumori –, sappiamo fare operazioni chirurgiche che stravolgono da cima a fondo il corpo di chi le subisce, ridando la mobilità ai paraplegici o cambiando il sesso di una persona in accordo alla sua psiche, sappiamo manipolare il mondo secondo le nostre più minute esigenze.

Due sono i binari della superbia: la curiosità e la sete di potere. Ed in fondo sono la stessa cosa: sapere quel che dovrebbe essere oscuro (dai misteri eleusini a quelli della fede), indagare la struttura profonda del mondo, per sviluppare le strategie migliori a modificarlo, a plasmarlo, quale homo faber che crede di poter mettere mano a tutto. La superbia è ingratitudine, perché è malcontento: non accontentarsi/ringraziare per ciò che si ha, ma instancabilmente cercare modi per renderlo più facile, più comodo, più alla nostra portata. Ulisse e Prometeo, sapere e potere.

Nonostante tutto questo, nonostante le guerre che ancora conduciamo e lo sfruttamento sanguinario del pianeta che tutt’ora mettiamo in atto, qualcosa però sembra essere cambiato.

 

Copri il tuo cielo, Giove,/ col vapor delle nubi!/ […] Ché nulla puoi tu/ contro la mia terra,/ contro questa capanna,/ che non costruisti,/ […] Io non conosco al mondo/ nulla di più meschino di voi, o dèi./ […] ed a stento vivreste,/ se bimbi e mendichi/ non fossero pieni/ di stolta speranza.”

Questo era l’urlo lacerante di sfida di Prometeo secondo Goethe, uomo e poeta dell’Ottocento (non tanto lontano da noi, a differenza di Omero e di Dante!). Come si esprime la sua superbia? Che cosa rivendica? Tu, Giove, non puoi nulla contro di me, non sei creatore né giudice di questo piccolo uomo, né puoi disfare le sue opere: la capanna che non costruisti, il mondo antropizzato, il potere della tecnica. Gli dèi non lavorano, non trasformano, non agiscono: sono idee astratte e assolute, immobili, appannaggio degli uomini, loro costruzioni mentali. Infatti, denuncia Prometeo, se sciocchi, bambini e disperati non credessero in loro, essi non esisterebbero più.

Eppure ci sono. Chiamiamoli pure concetti culturali, ammettiamo anche che non esistano al di fuori delle nostre teste e dei nostri rituali, gli dèi, al tempo di Goethe, ancora ci sono. E l’uomo nuovo, slanciato verso il Novecento, ateo, cultore solo di se stesso, non vede l’ora di disconoscerli, di sfidarli, di rinnegarli: l’ateismo è un gesto titanico, pericoloso, ardito, furioso, arrogante. La Chiesa, la gente, il buon costume, la moralità, veri o fittizi gli dèi ancora dominavano la vita e muovere loro guerra significava rischiare la morte – la scomunica, le accuse della legge, l’emarginazione….

Quello che ci domandiamo è: esistono ancora, oggi, negli anni Duemila, autorità così inviolabili, limiti così invalicabili (le colonne d’Ercole superate da Ulisse, il frutto proibito) da destare superbia? Esiste ancora qualcosa di sacro da profanare? Non sono forse morti tutti gli dèi, uccisi dalla risata e dalla bestemmia, uccisi dalla razionalità e dal cinismo? C’è davvero pericolo per i titani di oggi? Sono possibili, in effetti, titani?

Nemmeno la scienza, che tanta parte ha avuto nella destituzione degli dèi, gode oggi del sacro rispetto di fine Ottocento – né, men che meno, dell’invasamento pazzo e omicida che le tributavano i nazisti, vedendo in essa lo strumento perfetto per plasmare una razza e un mondo a immagine e somiglianza dell’uomo ariano, superiore. In un mondo spogliato delle sue mitologie, delle morali, persino della Razionalità nel senso alto che le diede l’illuminismo, quale vincolo può suscitare timore e curiosità, desideri di sapere e potere?

L’universo si stende sotto i nostri occhi, sappiamo di essere piccoli, ma pur sempre i meno piccoli possibili, tutto è a noi assoggettato. Il progresso e le nuove invenzioni non sono più rischi, non sono sfide di cui poter avere legittimamente paura, ma il naturale corso degli eventi. All’uomo comune occidentale non importa più molto delle Nazioni, se non per battute e stereotipi, non importa della Bellezza, della Giustizia, di Dio. Gli interessi odierni sono gretti e materiali, senza più il velo della narrazione, della filosofia, del simbolo.

Benessere per se stessi, cura della persona, economia domestica e guadagno delle grandi corporazioni. Scarsissima partecipazione politica. Percentuali stabilmente crescenti di analfabetismo di ritorno e di ateismo – o, meglio, di disinteresse totale verso le questioni religiose. Letteratura e teatro sono orpelli superflui, quel che serve è trovarsi “un lavoro serio” e arrangiarsi. Piccoli obiettivi a breve termine e a corto raggio.

Senza il sacro, non c’è il profano. Senza esseri o leggi superiori, non c’è la superbia. C’è l’inerzia, l’isolazionismo, l’arroganza di non sentirsi coinvolti, di pensare a se stessi e lasciar correre il mondo, obliando di essere connessi e colpevoli, di modificare la realtà anche solo respirando e muovendosi. L’epoca del leisure, dei piccoli sfizi, non delle grandi imprese.

Peccato che gli sfizi e il benessere, i piccoli egoismi quotidiani, pesino atrocemente sul mondo e, in forma meno palese, continuino i rapporti di sfruttamento di sempre, gravando sulla biosfera e sulle condizioni di vita dei restanti Paesi. Il tristo disimpegno occidentale, la superbia introversa e individualista dei nostri giorni, ha solo perso il manto epico che, ogni tanto, trasformava il pazzo ribelle in un eroe, la profanazione in rivoluzione. Ora restano solo le meschinità e le cattiverie, le bassezze del menefreghismo, la delusione di bastare a se stessi.

Articolo a cura di Alessandro Scali

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