Da dove nascono gli otto vizi capitali che abbiamo faticosamente esplorato? Hanno qualcosa in comune? Anche una soluzione?
Alla radice dei vizi: la paura
Ho paura di essere escluso. In effetti, la verità è che ho paura di meritarmi di venire escluso. Ho paura di dire quello che penso, perché mi sembra sempre di essere più stupido degli altri nelle conversazioni, di non dire cose interessanti. Ho paura di dire la mia perché ho paura di venire escluso perché ho paura di rimanere solo perché ho paura di scoprire che mi merito di rimanere solo. Ho paura di una paura di una paura di una paura di una paura.
E quindi non esco con persone nuove, se proprio ci sono costretto rimango in disparte e parlo solo se interpellato, se proprio devo parlare dico cose semplici e vaghe, anche se non rispecchiano veramente le mie idee o le mie emozioni. Ecco, questo è il mio stare al mondo, il mio essere davanti agli altri, l’essere pubblico. Questa è la mia pubblicità.
Ho paura di non valere abbastanza. A dire il vero, ho paura che gli altri valgano più di me. Ho paura che abbiano qualcosa che mi manca, per questo soffro terribilmente per tutti i loro successi e le loro conquiste: salgono ancora più in alto nella classifica, mi lasciano indietro. Loro hanno qualcosa che io non ho e che non posso in nessun modo compensare. Sarebbe giusto che loro lo perdessero, così giocheremmo (o lotteremmo) ad armi pari.
Auguro il male ai miei colleghi che vengono promossi semplicemente perché sono carismatici, parlo male alle spalle di chi trova una relazione stabile e mi ingegno per trovarci in tutti i modi dei difetti e pronosticare la sua fine. “Si è messa con lui solo perché non voleva stare sola. Non durerà.” E guardo a me come ad un minore, un difettoso, agli altri come a ladri o avversari sleali. Sono sarcastico e livoroso e, quando posso fare uno sgambetto, lo faccio volentieri. Questo è il mio modo di comportarmi col prossimo, questa è la mia pubblicità.
Ho paura di essere fregato. Ho paura che gli altri siano meschini e il mondo ingiusto. Ho paura di perdere quel poco che ho. Anzi, ho paura che, privato di quel poco che ho, io non sarei nulla. Ho paura di essere solo me stesso, senza talenti, azioni e beni. Me stesso e basta. Mi dà la vertigine, non posso soltanto ‘esserci’. Devo avere, conquistare, fare mio. Ma tutti lo vogliono e vogliono per prima cosa fare loro ciò che è mio.
Quindi me lo tengo stretto, mi guardo attorno, diffido di tutti. Ma appena vedo un’occasione, la arraffo! Voglio avere io gli altri! Provo un piacere segreto a far innamorare qualcuno di me e poi sparire, provo gusto per le toccate e fuga, per lo sgraffignamento, per il comando: mi piace quando sono gli altri ad obbedirmi e compiacermi. Voglio godere di loro e sfruttarli finché posso per non ridurmi ad essere solo me stesso. Questa è la mia pubblicità.
Ho paura del vuoto, del senso di vuoto che spesso mi prende. Sento che il lavoro e le relazioni finiscono e spesso mi fanno del male, che il mondo va a rotoli, che il giudizio degli altri mi potrebbe rovinare la vita, che nulla mi dà vera felicità, che in fondo la vita è vuota di senso. Gli sforzi vengono frustrati dalla sfortuna o dall’ingiustizia, i fallimenti vengono castigati con l’umiliazione e l’esclusione, la gioia viene sempre interrotta da qualche disgrazia e ogni ricerca di lotta o verità o giustizia ti rende solo più odioso il mondo e più faticosa l’esistenza.
Sto a casa il più possibile. Ho la mia routine. Evado il mondo come posso, con film e videogiochi e social e ogni cosa che mi possa spegnere il cervello per un po’. Non mi imbarco in nuove avventure. Non accetto le sfide. Seguo il mio schema minimo e necessario – lavorare quanto basta, un po’ dove e come capita, vedere quel tanto di persone che serve, amici e amiche sempre uguali, abitudinari, che non mi mettono a disagio, che in effetti un po’ mi annoiano, ma sono tranquilli e sicuri, cavarmela fino a fine giornata e poi sparire volentieri nel sonno.
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Se c’è un tema che abbiamo toccato in tutti gli articoli, nominandolo esplicitamente o sotto copertura, è la paura. La paura è un’istanza emotiva potentissima, e val la pena distinguerla in almeno due qualità: una paura che fa scattare, che è motore della sopravvivenza, che anima e vivifica, che spinge ad ingegnarsi alla ricerca di soluzioni, e una che paralizza, che fa marcire, sprofondare in pensieri e immagini sempre più oscuri e insormontabili, una paura che fiacca e mortifica, che fa desiderare la quiete, la quiete più assoluta e annullante che esista.
La paura di non essere nessuno accomuna superbia, gola e lussuria, la paura di perdere o fallire unisce avarizia e accidia, la paura del rifiuto e dell’inferiorità innesca ira e invidia. Per riempire il vuoto che ho dentro consumo, trangugio esperienze cibo luoghi persone; per difendere un’autostima ferita divento aggressivo e sprezzante, danneggio gli altri; per non rischiare delusioni e fallimenti mi ritraggo, mi faccio in disparte, esco dalla vita e trovo rifugio nella miseria, da cui niente e nessuno potrà farmi cadere più in basso.
Ecco, a noi serve fondamentalmente affrontare questa paura, questa istanza esistenziale, questo assoluto angosciante, per superare tutti i vizi. I vizi – l’abbiamo visto nella lunga carrellata di articoli dedicati a ciascuno – non sono tanto cattiverie, o non innanzitutto: i vizi sono modi dell’infelicità.
Essere viziosi significa in ogni caso essere fragili o rotti, essere ridotti, essere tristi. E gli antidoti che abbiamo tentato di scoprire – fiducia, cura, piacere, riconoscimento dell’Altro come tale, impegno… – sono in definitiva dei modi della felicità.
Le virtù, o forse, seguendo Socrate e Aristotele, l’unica somma virtù di cui tutte le altre sono solo sfaccettature, compongono la felicità, sono la radice e lo specchio della felicità. Parliamo di una felicità che non è solo psicologica, non è solo benessere, ma ha quel qualcosa di più, di totale, che fa andare in giro nel mondo in modo diverso, rischiarando tutto ciò che si vive e ciò che si fa, contagiando spesso gli altri, ammortizzando i colpi e le battute d’arresto che comunque ci sono, giocando e danzando con la vita in un modo che è attivo e creatore, autentico e audace.
Questo è l’esito della psychomachia: o la cessione alle paure, a tutte le forme che il vizio può assumere, o la scoperta, una virtù alla volta, dell’unico modo di essere felici.
Abbracciare il vuoto, il caso, se stessi, il mondo, entrarvi e lasciarli entrare in sé, avere la coscienza del proprio potere linguistico di dare senso alla vita, e di cambiare quel senso all’occorrenza, lo spirito critico di osservare e giudicare il mondo, in una corte la cui sentenza non è mai inappellabile, ma nasconde sempre almeno un mezzo sorriso di divertita ironia.
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Articolo a cura di Alessandro Scali