Vano. Vuoto. Privo di senso. Inutile. Lontano dall'essenza. Apparente. Superficiale.
Il morboso gioco della reputazione: la vanità
E così diciamo “vanitoso” chi esalta le proprie qualità più frivole – bellezza, simpatia, ricchezza… -, perché potrebbe perderle da un momento all’altro – un incidente, il tempo, la vecchiaia….
Ma se io mi vantassi di cose reali e profonde? Mi vantassi di essere empatico? Di essere giusto? Di essere esistenzialmente felice?
Sembra un paradosso: chi è veramente empatico sa che vantarsi di esserlo metterebbe a disagio gli altri, e non lo fa; chi è giusto non vorrà fare torto al punto di vista del prossimo, che potrebbe discordare con le sue opinioni; chi è felice non sente alcun bisogno di dirlo agli altri, di farli sentire in difetto, perché non può trarre nessun maggior piacere dall’umiliarli.
È come se le qualità dell’anima, chiamiamole “virtù”, escludessero automaticamente quella tendenza ad esibire, ad ostentare ciò che si ha.
E, come abbiamo indagato nell’articolo sull’invidia, ridurre se stessi o gli altri a ciò che si ha, senza capire il profondo collegamento con ciò che si è, significa peccare di superficialità.
Eccola di nuovo, la superficialità. La vanità ha a che fare con l’immagine delle cose, col colpo d’occhio, con l’aspetto a prima vista.
Narciso era vanesio perché amava ossessivamente la propria immagine, dimenticandosi di vivere, dimenticandosi del mondo “là fuori” – o qua dentro, o attraverso il dentro e il fuori, più precisamente.
Grimilde, che abbiamo estesamente studiato come invidiosa della candida fanciulla Biancaneve, è però anche vanitosa, perché ama farsi adulare dal suo specchio – cioè da se stessa.
Quanti uomini politici sono arroganti e vanitosi? Hanno una prepotente presenza pubblica basata su slogan, sul loro faccione enorme sulle bandiere e sui manifesti, sulla capacità di urlare e prendere in giro, sul loro successo imprenditoriale (quasi sempre a scapito dello Stato, non a favore) etc….
Diciamo pure che la vanità c’entra con il vendersi, con il piazzarsi sul mercato, sul farsi pubblicità: devo essere un dipendente più assumibile di tutti gli altri, un partner più attraente di tutti gli altri single su questa maledetta app di incontri, uno studente più brillante degli altri che sostengono l’esame e fanno i ruffiani con l’insegnante, devo essere l’account Instagram più divertente e capriccioso, pieno di foto dei mille modi e delle mille persone con cui mi diverto, dei mille posti in cui vado, dei mille vestiti che indosso.
E tutte queste cose, io, le sono davvero? Le possiedo? O mi convinco perché conviene? Mi travesto da cartellone pubblicitario, faccio della mia vita una réclame, uno sfoggio di cose oggetti luoghi persone di passaggio, che non sono veramente dentro di me, ma che arraffo soltanto per il tempo di farmici un selfie assieme.
Vado in una boutique per fare la foto indossando un abito lussuoso che mai potrò permettermi di comprare. Faccio la foto con una star per avere il mio momento di gloria, anche se questa diva o questo divo non hanno idea di chi io sia.
Mi aggrappo a tutto ciò che dà visibilità, vendibilità, soltanto per il tempo necessario a sfruttarlo, poi me ne vado, senza lasciarmi trasformare dall’incontro, senza accogliere in me qualcosa di nuovo e sorprendente.
Ecco perché è vano. Ecco perché parliamo di vanitosi e vanitose, di superficiali, di vuoti.
La vanità è la rincorsa al riflettore, al trucco, a ciò che mi rende più appetibile agli occhi degli altri. Ed è sorella della bugia, dell’omissione, dell’allusione…del non detto.
La vanità è un vestito semitrasparente, che illude di vedere attraverso e invece nasconde. La vanità non è la ricca superficie di cui ci ammantiamo, ma il vuoto che si cela sotto.
Vanità è senso di insufficienza o di inadeguatezza, è il gioco delle parti nel mercato della reputazione, è una corsa senza traguardo.
“Da quel momento ho detto sì a tutti:
è meglio un vile che un eroe morto. […]
Se questo è il mondo che voi difendete,
in questo vostro mondo so star bene!”
Si tratta di adattarsi, di accettare le categorie pubbliche e, anzi, competere in questa gara che non abbiamo scelto, che ci porta sempre più lontani da noi stessi. Adattarsi ai bisogni del mondo e, addirittura, per vincere il palio della nomea, rinnegare pure il nostro interesse, la nostra identità. Ecco la seconda faccia della vanità: un volto terrorizzato, incastrato in una competizione a cui non si è iscritto e che ora deve fare di tutto per vincere.
Il rimedio? L’autenticità. La gioia di essere se stessi, coi propri vuoti, coi propri difetti, coi propri limiti. Giocare in un’altra categoria e secondo altre regole: le proprie.
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Articolo a cura di Alessandro Scali