Il bla bla stanco e rabbioso di chi è deluso ma non sa come intervenire. La chiacchiera piatta e fiaccante degli stanchi quando si incontrano. Di cosa parliamo quando ci rivolgiamo alla lamentela?
Il pozzo della lamentela
“Tu ti lamenti, ma che ti lamenti?
Pigghia nu bastoni e tira fora li denti!”
Pietra miliare della canzone italiana.
Queste parole Modugno le fa dire ad un Gesù crocefisso, deluso e pentito delle sue scelte: ammonisce un povero servo venuto supplice da lui di non lagnarsi, di non piagnucolare perché il padrone lo bistratta e lo frusta, ma di impugnare il bastone e tirare fuori i denti.
Nella chiave politica che senz’altro possiede, ci si può vedere del socialismo: la religione è un frignare inoperoso che aspetta e confida, predica pazienza e tolleranza, fede nella venuta di Dio e nella remissione dei peccati, insomma, non cambia il mondo quando è ingiusto.
Il problema si vide già però nella profonda differenza etica tra Socrate/Platone e Aristotele: Socrate muore in pace e contento perché sa di essere stato virtuoso, accetta l’ingiusta condanna di Atene perché è forte della propria coscienza, dell’integrità della propria anima. “Perdonali padre, perché non sanno quello che fanno.” diceva Gesù. Per entrambi, il male lo fanno gli aguzzini e i potenti: saranno le loro anime a corrompersi e patire questa crudeltà, non certo quelle delle vittime innocenti.
Aristotele, invece, nell’Etica nicomachea dice ironicamente: sfido chiunque ad essere felice dopo aver avuto la vita di Priamo – il re di Ilio che si vide uccidere i moltissimi figli uno dopo l’altro, nonché conquistare e bruciare la città. Aristotele è certo del parere che ognuno debba fare grande lavoro su se stesso per temperare i vizi e amplificare le virtù, ma ha anche il realismo storico di ammettere che, per arrivare al massimo grado di bontà e felicità, serve vivere in un contesto sociale che lo permette, anzi, lo facilita. “Nessun uomo potrà essere pienamente virtuoso in una città ingiusta.”, perché i comportamenti laidi e crudeli degli altri gli impediranno di comportarsi come il suo retto ragionare gli indica.
Dunque, abbiamo da un lato una concezione solipsistica, resa privata dalla coscienza: caschi il mondo, possa io vivere in mezzo alle guerre o sotto una dittatura, possa io essere malato o vivere mille sciagure, potrò sempre restare puro e buono, essere il me stesso migliore possibile, purché la coscienza sia salda e la fede (nell’anima o in Dio) incrollabile. Dall’altro, un pragmatismo materiale: io posso e devo fare tutti gli sforzi possibili per migliorare me stesso, per non cadere in vizi e tentazioni, ma la struttura politica, culturale ed economica a cui appartengo deve darmi i mezzi per esprimere al massimo questa inclinazione – e io a mia volta, facendo il bene, sarò d’esempio e di contributo alla sanità e giustizia generali della collettività.
Gesù è senz’altro più vicino a Platone che ad Aristotele, dato che il suo regno non è di questo mondo, che consiglia di rendere a Cesare quel che è di Cesare e che incita i suoi discepoli a vivere in comunità nel deserto. I Romani e i farisei continuino pure a tiranneggiare e vessare la povera gente, a infliggere tasse durissime e repressioni violente contro le rivolte, noi seguaci di Cristo ci ritiriamo spiritualmente e fisicamente da qui, ci ritiriamo nel regno della coscienza, nel rapporto privato con Dio, e la Storia faccia un po’ quel che vuole a tutti gli altri.
Modugno, però, proprio a Gesù fa dire l’esatto contrario, forse recuperando un filone minoritario di cristianesimo militante, una rilettura rivoluzionaria del messaggio di Gesù : “ca iu ‘nchiodatu in cruci nun saria s’avissi fattu ciò ca dicu a ttia”, io non sarei inchiodato in croce se avessi fatto ciò che ora dico a te. Impugna il bastone e tira fuori i denti.
È qui che si gioca la grande partita. Davanti alle ostilità, ai mali oggettivi del mondo, alle ingiustizie, gli estremi del comportamento sono due: chi si isola dal mondo e cerca il proprio benessere, facendo finta che tutto il resto – guerre, stragi, soprusi, diseguaglianza… – non esista o non lo riguardi, e chi invece lotta accanitamente nel mondo e per il mondo, attraverso il giornalismo, la militanza politica, in veste di magistrato, di terrorista o rivoluzionario.
Chi cerca equilibrio interiore attraverso la meditazione o la psicologia o l’arte, con un po’ di fortuna può diventare felice, gestire con serenità i piccoli dilemmi del quotidiano e avere una condotta generosa e caritatevole col prossimo. Ma quasi sempre lascerà il mondo uguale a prima, salvo forse una piccola bolla di amici e parenti stretti un po’ meno amareggiati dall’esistenza.
Chi invece lotta e lotta, con l’instancabile persuasione di poter cambiare le strutture fondamentali del mondo e, di conseguenza, cambiare su vasta scala la vita dei popoli, spesso patisce la più grande frustrazione e la più profonda stanchezza, perché le strutture fondamentali del mondo sono pesanti da smuovere.
Tra questi due poli, nascono opposte combinazioni. Chi si lamenta, sbuffa, parla alle spalle, alza gli occhi al cielo, inveisce, maledice e condanna non agisce: si pone in antagonismo alla realtà che lo frustra ma non opera attivamente il cambiamento. Chi si lamenta vive nervoso e arrabbiato come i polemici, gli attivisti, ma non combina niente per risolvere i vari problemi, come gli spirituali. Il lamentoso e la lamentosa biasimano il governo ma poi non vanno a votare, detestano il loro lavoro ma non lo cambiano, hanno in antipatia parenti e colleghi ma evitano lo scontro – in questo senz’altro cadono nell’accidia, che abbiamo esaminato in un articolo apposta!
Se non altro, una fede privata, per quanto a volte renda egocentrici, almeno riempie di speranza e gioia la vita. La lamentela, invece, conserva il livore e il tormento del dissidente, dell’oppositore, ma anche l’inoperosità dell’asceta e del monaco, che rinunciano a salvare il mondo e si accontentano di salvare se stessi. La lamentela ha i lati peggiori di entrambe.
I lamentosi sono sia ignavi che pessimisti. Tendenzialmente, sono ignavi proprio per pessimismo: hanno un retaggio di disillusione che li porta ad appoggiarsi sull’unica valvola di sfogo rimasta – l’invettiva al vento, la lamentela con gli amici e coi passanti, che al massimo potranno compatirli, ma non aiutarli.
Qui sta anche la differenza con la protesta: la protesta è sempre un parlare dei problemi, ma parlarne con forza e nelle sedi giuste, dritto in faccia al potere, cercando di smuoverlo. Non è ancora azione, ma cerca di condurre all’azione concreta. Mentre la lamentela no: è intrapresa a vuoto, nell’aria, con persone che non hanno potere sulle condizioni di cui ci stiamo lamentando, o anche da soli. È una dichiarazione implicita di sconfitta: dove non è possibile l’azione, subentra la vana lamentela. Qual è l’antidoto?
Un esempio di antidoto possiamo trovarlo in uno dei grandi personaggi che abbiamo già menzionato: Socrate riflette, studia la matematica e l’astronomia, pensa a cosa possano essere l’anima e la bellezza, fa lunghe passeggiate solitarie, fa quelli che potremmo chiamare esercizi spirituali – disciplina la mente e il corpo per un vivere equilibrato, razionale e consapevole –, ma una volta finita la passeggiata, ricco di questo bagaglio intellettuale, torna ad Atene e comincia a rompere le scatole.
Socrate va dalle persone a porre domande scomode, provocatorie, a svergognare i giudici e i comandanti militari corrotti della città, insegna nelle piazze, richiama la gente, fa nomi e cognomi, fa opposizione politica e fino alla fine, nel tribunale che lo condannerà, mette la sua saldissima spiritualità al servizio del cambiamento, della giustizia e, possiamo dire, della collettività.
Socrate ha il meglio, quindi, dell’attivista e dello spirituale: medita, esce temporaneamente dal mondo, cerca in se stesso, nella Natura e in Dio (in senso lato) orientamento e decisione, ma poi torna audacemente nella storia, in società, e gioca la dura partita del militante, in pubblico, senza riserve, aspramente.
Socrate scuote le fondamenta di Atene, mette in imbarazzo chi lo condanna, non è un asceta pacifico e ritirato in se stesso, non si accontenta di sorrisi beati e equilibrio col cosmo: Socrate aggredisce i torti del mondo e i loro autori, pesta i piedi della gente importante, fino a perderci la vita. Solo una cosa poteva rendere ancora più rivoluzionaria la sua vita: che qualcuno ne scrivesse.
“Il rivoluzionario, quando è vero, è mosso da un profondo sentimento d’amore.”
cantava Guccini. E ha ragione: bisognerà pur essere innamorati di qualcosa! L’egoismo stanco e disilluso della lamentela non ha capacità trasformativa, non ha scintilla di cambiamento – e chi crede che gli autori di grandi “pazzie”, lotte e provocazioni siano dei frustrati non ne ha mai conosciuto uno: somigliano molto di più a degli innamorati, a dei credenti con il bastone in mano e i denti scoperti.
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Articolo a cura di Alessandro Scali