La miseria degli avari

Può essere sottile e mascherarsi, ma l'avarizia è dietro a molte delle nostre peggiori scelte, soprattutto quelle che ci fanno perdere occasioni che rimpiangeremo per sempre.

“L’avarizia è vivere in miseria per paura della miseria.”

sentenziava Bernardo da Chiaravalle.
E ci serve subito chiarire una cosa, anzi due: che l’avarizia non riguarda solo il denaro e i beni materiali, e che si tratta di una cosa diversa dall’avidità.

    L’avido è insaziabile, avventato e avventuriero, sleale, perfino crudele, perché vuole procurarsi sempre qualcosa di più, ha un bisogno di ricchezza, potere, stima (o anche esperienze e amore) senza fondo, si mette in pericolo per ottenerne sempre di più e non guarda in faccia nessuno. L’avido dissangua, ruba, froda, accumula.
L’avaro è fatto diversamente: per lui non si tratta di prendere, ma di conservare, stringere a sé, tener segreto. L’avaro può anche essere povero e non voler niente di più, ma non è disposto a cedere una sola briciola di quel che ha.
E non parliamo unicamente di proprietà economiche, di valori commerciali: si può essere avari di complimenti, di impegno, di pensiero, avari d’amore. Uomini e donne spesso freddi, distaccati, barricati in se stessi e se stesse, che non elargiscono affetto, che non espongono le proprie idee, che non rivelano mai quel che provano davvero, che non si mettono in gioco e, infine, certamente, anche tirchi ed egoisti.

    L’avaro (o l’avara, naturalmente) ha paura di effondere, di dare, di condividere. Si abbarbica caparbiamente a quel che possiede, dice: “Questo è mio! Me lo sono conquistato!” e lo tiene per sé. E sarà quindi taccagno nelle donazioni, insensibile alle richieste e alle preghiere, geloso di quel che ha, ritroso, nascosto, paranoico.
Posso essere avaro di ospitalità non aprendo mai le porte della mia casa a chi mi vuole bene (“è il mio piccolo regno, preferisco che ci vediamo fuori, quello è un posto solo mio”), posso essere avaro di attenzioni e di fiducia in una relazione (portando all’esasperazione colui o colei che mi ama ma non si sente mai veramente riamato), posso essere avaro di pensieri non condividendo mai le mie idee, evitando i litigi e i confronti, tenendomi tutto dentro.

    L’avaro ha paura di perdere, questa è la verità. Ha paura di non avere abbastanza o che nel mondo non ci sia abbastanza da ottenere e, per non saper né leggere né scrivere, chiude la porta in entrambe le direzioni, non esce alla vita e non fa entrare nessuno nella sua. Ed è Gesù nella parabola dei talenti a spiegare questo fenomeno: il servo a cui il padrone aveva dato cinque talenti li investì e ne guadagnò altrettanti, mentre quello a cui ne aveva dato solo uno lo seppellì sottoterra – dunque non solo l’avaro non rischia quel che ha per ottenere di più, ma neanche gode del suo tesoro, non vuole esaurirlo, non vuole sprecarlo.
Ecco perché l’avarizia è una forma di miseria: è una vita ritratta, isolata, grama, spaventata, che non sa godere perché non vuole correre rischi, perché ha paura di divenire nulla.
Ed ecco che quindi non dichiaro il mio amore a un’altra persona perché non sono certo di esserne ricambiato, non esprimo il mio parere in una discussione perché potrei essere smentito, non mi iscrivo a un corso di tango perché temo di essere il meno bravo della classe: chissà mai che, invece, andandoci avrei trovato un altro dilettante come me e, facendo coppia, saremmo diventati entrambi molto bravi.

    Una società di avari è come un gruppo di persone disperse tra i ghiacci: una possiede la legna, una la benzina, un’altra i fiammiferi, ma per paura di essere derubate non offrono agli altri il proprio talento e così tutti quanti muoiono assiderati.
L’avaro deve imparare a correre dei rischi: molte delle cose che siamo e possediamo – con le dovute cautele, perché neanche sarebbe giusto svenderci al ribasso o drenarci – fruttano solo se investite, se lanciate nel mondo. E a volte ritornano accresciute e più belle, ci riempiono di esperienze nuove e sensazioni. Forse è solo se amo pienamente, accettando di poter essere rifiutato, che il mio amore splenderà vivo e bello agli occhi di chi amo. Forse è solo se dono, se regalo, che sento di aver usato bene ciò che avevo – a cosa serve accumulare libri che mai più sfoglieremo, case delle vacanze in cui non avremo voglia di andare, emozioni represse e castrate?
L’avaro è geloso custode delle sue potenzialità: io potrei rileggere quel libro in ogni momento, se me ne venisse voglia, io potrei salire in montagna a sciare tutti i weekend, se volessi, io saprei amare, se solo ci fosse qualcuno che…. L’avaro non conosce la deliziosa leggerezza di aver donato, senza calcoli, senza compenso, senza garanzie o assicurazioni. L’avaro non sa stare in sospeso nel vuoto, con se stesso, aspettando di vedere cosa la vita abbia da offrirgli. L’avaro non ha fiducia nel mondo e nella vita, forse l’ha persa perché in passato ha donato troppo e scioccamente, per cui vive represso e castrato in un mondo asfissiante che gli dà un amaro conforto.
Il servo che non credeva in se stesso seppellì il suo talento sottoterra, dove non aiutò né lui né chicchessia. Ci si sarebbe potuto fare almeno una bevuta, piuttosto che niente!

Quando si scopre che le nostre ricchezze fioriscono e si moltiplicano incontrando quelle degli altri, quando si scopre quante occasioni si son perse, quanti aborti di felicità, quante rinunce che apparivano furbe ed erano spaventate; quando si studia la propria vita e si scopre di essere stati poveri di una povertà egoista e meschina, allora può solo sorgere il rimpianto.

“Ci sono molte cose che butteremmo via volentieri, se non avessimo paura che qualcun altro le raccogliesse.”, ecco come ammoniva il lussureggiante, libertino Oscar Wilde: dare, dare, dare, perché per gli esseri umani la vita è uscita, creazione, incontro, estrinsecazione. Invece per l’avaro il mondo è ladro e l’unica certezza è l’amaro bastare a se stessi.

Articolo a cura di Alessandro Scali

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