Niente da riportare

Cos'è l'accidia se non un'acuta forma di depressione? Perché agire, se tutti i nostri sforzi non hanno senso? Perché rischiare, se il traguardo è irraggiungibile? Perché il mondo, a un certo punto, ci diventa noioso e stanco?

 

E non ho niente da riportare. Quella sera, quando Ginevra mi ha chiesto “Nonno, andiamo a
guardare le stelle?” nella stanza il CD stava girando come sempre, senza nessuno ad
ascoltarlo. Ed è lì che sono stato pervaso da un brivido, per la prima volta nella memoria
degli ultimi mesi. Quella scossa era la nostalgia delle notti passate a nominare i puntini di
luce nel cielo.
Mi sono rimesso le scarpe, che non indossavo da sette mesi ormai, o forse più – chi lo sa?,
oramai il tempo mi sfugge e non so come contarlo. Dell’ultima volta che ero uscito, ricordavo
solo il freddo, il buio feroce dei campi e la ferma decisione di non provarci più.
Ma per qualche motivo lei mi ha preso la mano e guidato con cura, trasportato fuori come si
trascina un cane stanco. Siamo arrivati nel prato vicino casa, lo stesso prato di sempre.
In quel pezzo di terra io andavo in bicicletta da bambino, e anche mia figlia ha iniziato lì a
camminare e correre, cadere e sbucciarsi, piangere e rialzarsi. E l’ha insegnato anche a
Ginevra. Un tempo questa continuità di spazio mi solleticava il cuore, la vedevo come un filo
che intersecava corpi simili e animi nuovi, un filo che era linfa di questo albero genealogico
cresciuto nel prato. Ma in quel periodo questa continuità era diventata solo una ripetitiva
monotonia, la vecchiaia di un luogo stufo di essere calpestato dalle stesse persone di
sempre, stufo di mostrare agli stessi occhi le solite costellazioni, che io proprio lì ho
conosciuto, settant’anni fa, con il naso incollato al cielo.
E ora io e Ginevra eravamo lì, di nuovo. Lei pervasa da un soffio di vita che non mi è
appartenuto mai davvero, io pervaso da un’eco di morte che non mi aveva accolto ancora.
Eravamo lì a fissare un cielo senza stelle, un cielo vuoto nero.
“Guarda, nonno, c’è Arturo!” Ma io non lo vedevo.
Non c’era per me una sola stella che brillasse in quel buio di cielo catrame.
I miei occhi ciechi dalla secchezza di un pianto mancato si aprivano sul panorama di un
colore opaco. Ed io, incapace di vedere la luce, producevo pensieri che giravano, ascoltati
da nessuno, come la musica del CD. E così mi vedevo: vulcano che piange lava e si
condanna alla sua stessa pozza di fuoco, edera morta suicida, stanca di doversi appendere
a un corpo non suo. Mi vedevo: inerte medusa che ha perso i colori, anemone urticante per
la sua stessa immobilità. Mi vedevo: corpo umano sfibrato, disteso sulla sua cara terra
ostile, con gli occhi di chi vuole toccare le stelle luminose della memoria. Di chi vuole che la
fine plachi il suo indugio e copra definitivamente uno sguardo ormai incapace di vedere.
Eppure, in qualche modo, mi vedevo: intorpidito, mentre la vita corre nelle vie del cuore di
Ginevra, e tra le mie inciampa. E davvero non mento quando dico che non ho niente da
riportare, solo la precoce ingenua malinconia nel sorriso di mia nipote, e l’amarezza di un
altro giorno poi vissuto, nel dolore di una casa che mi tiene segregato. Prigioniero distante
da un prato che dorme nel silenzio di un cielo ora mutato.

Composizione di Ludovica Ingangi

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